[Sommario - Numero 119]
Libertador
Matteo Franco - Illustratore e designer editoriale, nato a Roma nel 1988. Ama la montagna e le moto ed è convinto di saper meglio cucinare che disegnare.
La “reina” ripiena
Maurizio Maggiani
Piccola Venezia
Maurizio Cucchi
venezuela si salva chi può

Non si può vivere di solo petrolio

Negli ultimi anni due terzi dei venezuelani hanno perso nove chili di peso in media, una “dieta” cui sono stati costretti da una delle più devastanti crisi economiche della storia recente. Come ha potuto un Paese che possiede, se si include il petrolio di difficile estrazione, le maggiori riserve petrolifere del pianeta, di gran lunga superiori all’Arabia Saudita, ridursi in questa maniera? Paradossalmente, il petrolio è stato sia la ricchezza che la maledizione del Venezuela, in un caso da manuale di “petro-stato”. I Paesi che vivono grazie al petrolio, infatti, finiscono per esserne dipendenti, a meno che non abbiano scoperto l’oro nero già dopo essersi dotati di un’economia sofisticata, come per esempio gli Stati Uniti e il Canada. Il petrolio è troppo redditizio, e relativamente facile da ottenere, per investire in un’industria capace di competere nel mondo, e in una imprenditoria diffusa: il greggio provvede alla maggior parte delle entrate statali, e delle esportazioni, e permette di importare tutto quello di cui si ha bisogno invece di produrlo.

Una ricchezza facile da concentrare in poche mani – il petrolio non richiede molta mano d’opera e necessita di grosse aziende, private o statali – per poi ridistribuirne i proventi. L’operazione politica di Hugo Chavez – arrivato al potere nel 1999, lo stesso anno di Vladimir Putin, un altro leader che ha costruito il suo regime sul boom degli idrocarburi, iniziato proprio in quel momento, dopo 15 anni di prezzi bassissimi – è stata proprio questa: nazionalizzare il settore petrolifero, e distribuirne i frutti. Il petrolio infatti, per la natura centralizzata della sua produzione, non incoraggia la democrazia: di nuovo, le uniche democrazie che vanno a petrolio sono quelle che lo erano già prima della scoperta dell’oro nero, come gli Usa, il Canada e la Norvegia. Il reddito di un Paese petrolifero si concentra in poche mani, perché le esportazioni sono composte da un’unica merce, mentre i ricavi si raccolgono facilmente, con le imposte sul reddito che non sono importanti, perché sostituite dalla rendita petrolifera. Che viene distribuita ai cittadini, finanziando un elettorato di fedelissimi, e un’élite militare che tiene a bada gli scontenti.

Il Venezuela esporta quasi solo petrolio, principalmente verso gli Stati Uniti. Con i prezzi del barile sopra i 100 dollari il chavismo ha potuto lanciare programmi sociali, aumentare salari, sovvenzionare i prezzi dei prodotti di prima necessità, e anche finanziare una politica estera “rivoluzionaria”, con aiuti a Cuba, sfide agli Usa e tentativi di creare un’alleanza “bolivariana” nell’America Latina. Tutto questo però è collassato insieme al prezzo del petrolio, in una discesa vertiginosa che ha messo in difficoltà anche altri petro-autoritarismi come la Russia e la Nigeria. Il bilancio pubblico del Venezuela andava in pareggio intorno ai 120 dollari a barile, e l’estrazione dalle cisti bituminose non ancora sfruttate poteva rendere soltanto con un prezzo almeno intorno i 150 dollari. Il precipitare del barile a 50 dollari all’inizio del 2015 ha messo il Paese in ginocchio. In linea astratta, Caracas a quel punto poteva tagliare la spesa pubblica e/o alzare le imposte, rischiando però di perdere l’appoggio popolare, che è alimentato con le regalie petrolifere. E qui è stato fatto un altro errore da manuale: stampare moneta per finanziare la spesa pubblica in deficit, ciò che ha prodotto un’iperinflazione che ha sfiorato il 4300%. Con l’inevitabile risultato di far sparire dai negozi i beni di prima necessità, far fuggire i pochi investitori che non erano ancora scappati dalle politiche repressive del chavismo, e ridurre la popolazione alla fame.

E così il Paese più ricco dell’America Latina è diventato in pochi anni un disastro che si può paragonare alla Cina distrutta dal Grande balzo in avanti o all’Urss delle carestie staliniane. Senza apparentemente una via d’uscita: il prezzo del petrolio si è ripreso dal minimo – grazie all’accordo dell’Opec e della Russia per frenare la produzione e quindi l’offerta, mentre la domanda mondiale risaliva - fino a giungere a 70 dollari al barile. Troppo poco però per rimettere in piedi il Venezuela, inoltre con questo prezzo diventa conveniente l’estrazione del petrolio ottenuto con la frantumazione delle rocce - il famigerato shale oil. In questo modo aumenta l’offerta, soprattutto negli Usa, che è il principale consumatore del greggio venezuelano.


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